Perché il cuore batte spontaneamente in caso di morte cerebrale.
Perché il corpo è caldo all'atto del prelievo.
La pratica terapeutica del trapianto, diffusa ormai da decenni in tutto
il mondo e da alcuni anni anche nel nostro Paese, può, allo stato
attuale delle conoscenze mediche, realizzarsi solo se si utilizzano
organi umani. Ciò comporta tutta una serie di problemi psicologici,
morali e sociali, che possono essere affrontati e risolti ad una sola
condizione: con la certezza assoluta che il donatore sia effettivamente
morto al momento della utilizzazione dei suoi organi.
II
prelievo è, infatti, un fatto drastico, definitivo, irreversibile per
cui, per dare la propria disponibilità alla donazione, è necessario
avere delle conoscenze precise, delle certezze in grado di cancellare
dubbi e perplessità. Alla fine degli anni ‘50 la Medicina di emergenza
ha fatto enormi passi avanti grazie all'utilizzazione di macchine in
grado di sostituire temporaneamente le funzioni vitali bloccate dalle
più svariate cause. Siamo diventati in grado di mantenere la
ventilazione polmonare se cessa il respiro spontaneo, tenere la
temperatura corporea a 37° C anche se la termoregolazione è
inefficiente, purificare il sangue con i reni bloccati o distrutti. In
questo modo l’organismo resta vitale, per il tempo che serve ai processi
di riparazione spontanea o alle varie pratiche terapeutiche, in attesa
del ripristino della piena funzionalità. Risulta quindi evidente che in
questi decenni innumerevoli vite, altrimenti perse, hanno potuto essere
salvate.
L’introduzione di queste tecnologie ha portato anche
ad un’altra possibilità completamente nuova: la separazione temporanea
(alcune ore) della morte del cervello da quella del resto
dell’organismo. In alcune situazioni particolari, traumi cranici, ictus o
altro fatto primitivo, questo organo muore per cui naturalmente cessano
il respiro, la capacità di termoregolazione ed altri fondamentali
riflessi. In particolare è l’assenza di ossigeno a determinare i
processi che portano alla distruzione di tutte le cellule che compongono
i vari tessuti. Mantenendo con le macchine la funzione respiratoria il
cuore può continuare a battere spontaneamente per alcune ore e
prolungare la vitalità di tutti gli organi: il cervello è morto, la
persona non esiste più, ma tutto il resto dell’organismo si mantiene in
condizione di “vita residua”.
I francesi per primi
identificarono e capirono questa nuova situazione e la definirono
chiamandola “coma depassé” che vuol dire “coma superato”, “condizione
oltre il coma”. Questo termine, seppur scientificamente corretto,
contiene una grossa ambiguità mescolando due condizioni completamente
diverse: sappiamo cos'è il coma, “oltre” quello c’è solamente una cosa,
la morte. Per evitare dubbi o incertezze oggi si usa il termine “morte
cerebrale” con cui si indica uno stato irreversibile, ben conosciuto da
tutti, che coincide con la scomparsa definitiva e completa della
persona.
Perché il cuore batte spontaneamente in caso di morte cerebrale
Una persona che subisce un grave trauma cranico, arriva nel Centro di
Rianimazione in stato di coma e, molto spesso, non è in grado di
respirare autonomamente. Per prima cosa, quindi, si reintegra il respiro
con l’aiuto di una macchina, dopo di che si procede al tentativo di
riparare quei danni che mettono in pericolo di vita la persona. Se gli
interventi riescono, dopo un certo periodo di tempo si stacca il
respiratore, perché il paziente riprende a respirare in modo autonomo. A
volte, purtroppo, tutte le terapie attuate sono inutili, per cui si
arriva a constatare l’avvenuta morte cerebrale: la persona non è più in
grado di realizzare spontaneamente alcuna attività e la parvenza di vita
è mantenuta dalle macchine, che tengono costante la temperatura e
ossigenano il sangue. Di fatto, non appena diagnosticato questo evento,
si dovrebbe staccare il respiratore, in quanto ogni intervento
successivo è completamente inutile, ma da quando si applica la terapia
del trapianto, si mantiene questa funzione per conservare la vitalità
degli organi da donare. A questo punto il medico rianimatore comunica
che è possibile effettuare il prelievo e chiede ai congiunti se il loro
caro avesse espresso opposizione alla donazione.
Il quadro di
questo drammatico momento è il seguente: il cervello è distrutto non
solo sul piano della funzionalità, ma anche su quello anatomico perché
le cellule morte cominciano a scomporsi (nelle autopsie si ha sempre
questo referto: dopo alcune ore dalla loro morte le cellule nervose
vengono demolite dai loro stessi enzimi): il respiro è mantenuto dalle
macchine che non possono mai essere staccate in quanto ogni ripresa è
impossibile; il cuore continua, seppur con l’aiuto di numerosi farmaci, a
battere spontaneamente.
Questo fenomeno rappresenta uno dei
maggiori ostacoli al prelievo. E’ fondamentale per il trapianto, in
quanto l’attività cardiaca mantiene vitali gli organi, ma ingenera false
speranze ed illusioni in quanto produce la sensazione che la persona
cara non sia effettivamente morta, che ci sia la possibilità, anche
minima, di vederla tornare in vita. Questa falsa parvenza di vita illude
i congiunti perché allontana il momento definitivo della
separazione: meglio tenere la persona cara in una condizione di falsa
vita piuttosto che accettare il fatto definitivo della separazione. E’
necessario, quindi, cercare di fare chiarezza anche su questo problema.
Il corpo umano è composto di organi, tessuti e cellule diversi, per cui
su un piano strettamente biologico si deve considerare la persona morta
quando tutte queste strutture sono distrutte. Ora noi sappiamo che non
tutte le
componenti organiche “muoiono” nello stesso tempo, per cui
si considera non istantaneo, ma graduale il verificarsi della “morte
biologica”, quella di tutte le cellule, per intenderci. Per primi
vengono distrutti i tessuti “nobili”, poi via via gli altri organi ed
apparati, secondo uno schema di successione perfettamente conosciuto
dalla scienza medica da decenni.
Ultimi a “morire” sono gli
annessi della cute, i globuli rossi, gli spermatozoi. Da secoli, ad
esempio, si è osservato che barba ed unghie continuano a crescere per
giorni dopo che una persona è effettivamente morta: senza per questo
mettere in discussione questa diagnosi. Se una persona è morta a livello
cerebrale, il mantenimento della funzionalità cardiaca ha lo stesso
significato: una funzione viene mantenuta anche se la persona è
rrimediabilmente defunta. Il cuore, infatti, è molto robusto: è vitale
dopo oltre 20 minuti di assenza di ossigeno (4-8 minuti per il
cervello); utilizza come fonte di energia tutto quello che è
disponibile, anche quelle sostanze che
sono scartate dagli altri
muscoli; è indipendente dal resto dell’organismo perché contiene al suo
interno i meccanismi che attivano la contrazione. Proprio perché è
importantissimo, è protetto in modo quasi completo dai danni che possono
capitare al resto dell’organismo. La sua autonomia è tale che,
asportando un cuore e immergendolo in una soluzione nutritiva, continua a
contrarsi per un certo periodo di tempo.
Ecco allora spiegato
il quadro clinico della morte cerebrale: il cuore continua a battere
spontaneamente per alcune ore perché è indipendente dal cervello, sempre
che sia mantenuta artificialmente la respirazione e sia sostenuto da
sostanze farmacologiche adeguate. Questo fenomeno è conosciuto già da
parecchi secoli in quei paesi in cui la pena di morte veniva eseguita
con la decapitazione. Le cronache tramandano di parecchi casi in cui il
cuore ha continuato a battere per un certo periodo di tempo, anche se la
testa era staccata dal busto.
I casi di morte cerebrale
riproducono questa situazione: siccome il cervello è morto, si potrebbe
addirittura asportare il capo senza che si verifichi alcun cambiamento
apprezzabile. Questo quadro non resta invariato per molto tempo: dopo un
certo periodo, che va da alcune ore a pochissimi giorni, anche il cuore
cessa di funzionare e non è infrequente che non si possa attuare il
prelievo degli organi donati in quanto nel tempo di osservazione
previsto dalla legge, nonostante macchine e farmaci, si interrompe la
contrazione cardiaca. Possiamo concludere, quindi, la presenza di questo
segno vitale, proprio perché residuo, non ha alcun significato visto
che può durare solo per pochissimo tempo dopo la morte del cervello e
solo con artifizi tecnologici. La persona non esiste più, non può
tornare in vita anche se parti del corpo mantengono funzioni parziali.
Perché il corpo è caldo all'atto del prelievo
Un’altra obiezione che limita il prelievo e, di conseguenza, il
trapianto è appunto legata alla presenza del calore nel corpo del
donatore. Anche la temperatura, come la pulsazione cardiaca, è da sempre
considerata un segno di vita, per cui la sua presenza nei casi di morte
cerebrale può indurre ulteriori illusioni e false speranze. Per questo
fenomeno la spiegazione è molto semplice. Il centro che regola la
temperatura è, insieme a quello del respiro, nel tronco e, di
conseguenza, cessa di funzionare alla morte delle cellule che lo
compongono. Il corpo tende a raffreddarsi ed allora, sia per i tentativi
di rianimazione, sia per mantenere gli organi vitali per il trapianto,
si riscalda artificialmente la persona con una semplice resistenza
elettrica incorporata nel letto.
In presenza di morte
cerebrale, senza questo intervento la temperatura si porta, nel giro di
breve tempo, al livello della temperatura ambientale.
Tutte le
operazioni che abbiamo descritto avvengono nei Centri di Rianimazione
degli ospedali pubblici che, al pari delle altre strutture sanitarie,
hanno lo scopo di guarire le persone. In particolare in queste sedi si
trattano le situazioni più disastrose, quelle malattie o quei danni che
mettono in immediato e grave pericolo la vita degli esseri umani.
Quindi tutto il personale impegnato in questi reparti lavora per
salvare i pazienti e ridurre al minimo gli eventuali danni che la
patologia o il trauma che li ha colpiti possono produrre. La loro più
grande soddisfazione è la stessa di tutto il personale sanitario:
dimettere le persone nelle migliori condizioni di salute.
Vista però la situazione gravissima in cui in genere arrivano qui i
pazienti, non è purtroppo infrequente che questi, nonostante gli sforzi,
non riescano a superare le crisi per cui sono stati ricoverati.
In alcuni di questi casi i medici hanno anche un altro dovere: dopo
aver tentato tutto, dopo aver utilizzato tutte le tecniche a loro
disposizione, constatata in modo assolutamente certo la morte cerebrale,
devono mantenere il corpo del defunto in condizioni tali da poter
salvaguardare gli organi che possono essere utilizzati per i trapianti e
tocca a loro l’ingrato compito di informare i familiari della
possibilità di poter procedere al prelievo.
Questa situazione è
per loro molto amara perché oltre a condividere il dolore dei
congiunti per il triste evento, devono caricarli di ulteriori problemi.
Hanno però una piccola consolazione: sapere che altre persone ammalate
potranno vivere meglio o addirittura sopravvivere usufruendo degli
organi donati.
(A.I.D.O.)
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